La necessità di far fronte all’emergenza sanitaria legata alla diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2 ha riacceso il dibattito sull’obbligatorietà dei vaccini nel nostro Paese.
Il dato normativo di partenza è senz’altro l’articolo 32 della Costituzione che al secondo comma dispone: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Il testo è frutto di una delicata operazione di bilanciamento tra libertà di autodeterminazione dell’individuo, da un lato, e necessità di tutela della collettività, dall’altro.
Il recentissimo decreto legge 01 aprile 2021 n. 44 approvato dal Consiglio dei Ministri il 31 marzo 2021 pubblicato in Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 79 del 01.04.2021, all’art. 4, comma 1, ha introdotto l’obbligo generalizzato di vaccinazione per gli operatori del comparto sanitario, sottolineando che la “vaccinazione costituisce requisito essenziale all’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati”.
Lo stesso decreto prevede, infatti, le possibili conseguenze in caso di rifiuto della dose di vaccino: il datore, nell’esercizio del suo potere direttivo, dovrà curarsi di adibire il lavoratore a una mansione diversa (anche inferiore) o, qualora non fosse possibile, potrà sospenderlo senza retribuzione.
Tuttavia, la domanda da porsi con maggiore insistenza è la seguente: può il datore di lavoro, al di fuori dei settori esplicitamente indicati dal succitato decreto, imporre il vaccino ai dipendenti?
Premettendo che non esiste uniformità di vedute, possiamo, a grandi linee, distinguere due posizioni, di seguito, brevemente e senza pretesa di esaustività, riportate.
Alcuni ritengono che la sottoscrizione del contratto di lavoro comporti l’automatica accettazione di restrizioni della libertà individuale, che a loro volta comprenderebbero non solo le limitazioni alla libertà di movimento nelle ore e nei luoghi in cui si esplica l’attività lavorativa, ma anche l’obbligo di sottoporsi al trattamento sanitario richiesto. Inoltre, per esplicita previsione dell’articolo 2087 del Codice civile, il datore di lavoro ha l’obbligo, sanzionato dall’ordinamento, di adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Quanto sopra, quindi, si tradurrebbe nell’obbligo di garantire un ambiente sicuro nei confronti di tutti, non solo di eventuali clienti, ma anche di altri lavoratori (si pensi a chi non può ricevere la somministrazione della dose di vaccino a causa di condizioni mediche incompatibili). L’effetto sarebbe l’allontanamento, attraverso il mutamento di mansione o la sospensione della prestazione, del lavoratore che rifiuta il vaccino senza allegare idonea giustificazione.
Altri ritengono che dal rifiuto di sottoporsi a vaccinazione non potrebbe derivare alcun pregiudizio all’ordinario svolgimento del rapporto di lavoro. Se si consentisse al datore di lavoro di trattare diversamente i lavoratori vaccinati da quelli non vaccinati si creerebbe una situazione di intollerabile discriminazione. Inoltre, il già citato articolo 2087 del Codice civile non varrebbe a fondare l’imposizione perché in palese contrasto con il dettato costituzionale secondo il quale l’obbligo vaccinale può derivare unicamente da una legge dello Stato. L’adesione a questa ricostruzione comporterebbe la nullità non solo di un’eventuale clausola contrattuale che impone la vaccinazione ma anche di ogni atto datoriale da questa condizionato.
In conclusione, ribadendo la diversità delle posizioni, pur non essendo contemplabile l’ipotesi del licenziamento, non è da escludere che l’adozione di misure idonee a garantire la sicurezza sul luogo di lavoro possa comportare l’allontanamento, nelle modalità sopra descritte, del lavoratore che si rifiuti di ricevere la somministrazione del vaccino, sì da non compromettere, nemmeno potenzialmente, la salute dei soggetti più fragili.